Il Titanic dell’UE viaggia tranquillo verso il suo iceberg. Non una montagna di ghiaccio ma un mondo che si sta rapidamente trasformando rispetto a come lo abbiamo conosciuto fin qui. Le guerre non sono più solo nascoste nelle foreste lontane ma ci sono vicine; i terroristi non uccidono solo in località sconosciute ma attaccano direttamente i paesi democratici/occidentali (ieri USA oggi Israele); l’Europa scopre che l’antisemitismo non è mai del tutto cancellato (come il male, del resto).
Sul Titanic, nel frattempo, dalle suite di lusso fino alle cabine di terza classe, un popolo che ha buttato a mare la propria storia e identità giudaico-cristiana festeggia spensierato le conquiste della scienza e della tecnica che ha eretto a nuovi dei; nelle cabine di comando i responsabili sembrano particolarmente impegnati ad affossare l’economia manifatturiera che ha fatto grande l’Europa e valorizzato gli uomini del lavoro; in nome del green sono impegnati a regolamentare i tappi di plastica, a immaginare nuove confezioni per l’insalata, a pensare come complicare la vita ai consumatori europei imponendo standard alimentari per i quali nessuno li ha autorizzati: senza dimenticare gli intralci al lavoro di pescatori e agricoltori e altri operatori economici.
Hanno perso la bussola, mai espressione fu così adeguata al momento: oggi l’UE è veramente una “nave senza nocchiero in gran tempesta”. Lo vediamo quotidianamente: di fronte alle sfide rappresentate dalle guerre tra Russia e Ucraina e tra Israele e Hamas (e interposto Iran?) non solo l’UE non è in campo con proposte realistiche ma in essa sono presenti posizioni politiche differenziate: pensiamo al ruolo della von der Leyen (allineata alla politica USA e al sostegno indiscusso a Israele) a quello del suo competitore Michel (assai più possibilista) ma anche al filopalestinese premier spagnolo Sanchez.
In diversi paesi europei sembra abbiano voce pubblica soprattutto i filo palestinesi a sostegno di Hamas, crescono gli attentati agli ebrei, non c’è alcuna iniziativa credibile verso la popolazione di fede islamica che ha scelto di vivere e integrarsi in Europa perché non sia attratta dalle sirene fondamentaliste.
In un tale contesto i richiami l valore dell’Unione Europea non possono che suonare un po’ retorici. Anche la voce di personalità serie e credibili come il Presidente Mattarella e Mario Draghi non può che suonare lontana rispetto alle attese della gente e ai problemi dei popoli.
Appartengono entrambi a quelle generazioni (come la mia peraltro) che hanno visto il sorgere delle istituzioni europee in tempi in cui l’unificazione di commerci, la libera circolazione delle persone e il dotarsi di prime regole comuni erano sospinti dal vivo ricordo dei massacri della guerra e l’equilibrio delle potenze ( la famosa cortina di ferro calata sull’Europa a metà degli anni Cinquanta del secolo scorso) era la condizione, se non di una vera pace, almeno di una convivenza tra imperi opposti – vista la potenza distruttrice sperimentata sul Giappone con le bombe atomiche.
E’ difficile ritrovare oggi tracce di quella spinta unitaria (che tra l’altro non procedeva per ampliamenti senza verifiche serie dei paesi richiedenti: non si entrava nella UE in spirito difensivo ma per costruire e ampliare uno spazio politico e culturale innovativo e diverso). Oggi basta pensare alle differenze di impostazione economica tra i paesi del nord e quelli dell’area mediterranea; ai diversi atteggiamenti nei confronti dell’immigrazione; al sovranismo della Francia e all’incessante tentativo egemonico della Germania per vedere le difficoltà di quel “più Europa” che gli ottimisti auspicano.
L’esigenza segnalata in un recente intervento da Draghi, cioè la necessità di una politica estera europea e di conseguenza di un esercito europeo, si richiama al desiderio dei padri fondatori ma dubito possa essere un obiettivo a breve. Questo richiederebbe almeno una condivisione da parte dei parlamenti nazionali ( e vediamo quotidianamente le difficoltà presenti anche solo per la conversione di dossier meno complicati da parte di 27 paesi) ma soprattutto delle popolazioni. Siamo così sicuri che i popoli europei siano pronti a una nuova coscrizione generalizzata, a mandare al fronte o in zone complicate non solo volontari ma coscritti?
C’è una politica con l’elmetto, accompagnata anche da un’informazione con l’elmetto, che passa attraverso grandi e piccoli organi d’informazione, e in realtà c’è una strada per raggiungere questi obbiettivi, ed è la strada pericolosa sulla quale ci si è in parte incamminati dopo la caduta del muro di Berlino e del comunismo sovietico. Ed è la strada di affidarsi alle élite scavalcando i popoli. E’ la grande tentazione cui tendono i poteri reali come quello finanziario che, concentrato nelle mani di pochi, tenta sempre di più di influire sulle scelte di politica economica e sociale dei diversi paesi a cominciare dai più poveri (pensiamo agli aiuti dati solo in cambio di politiche cosiddette progressiste – diritto all’aborto, politiche sulla differenza sessuale etc.)
L’Unione Europea resta un’istituzione che necessita di un rigoroso aggiornamento se vuole essere protagonista nel cambiamento in corso. Per questo il problema non può ridursi a una discussione tra sovranisti e globalisti/europeisti. Senza un rispetto delle diverse storie e identità presenti nei paesi Europei il Titanic non potrà che schiantarsi. In caso contrario si potrà seriamente cominciare a pensare a stati uniti d’Europa dove le nazioni che il tempo e la storia hanno modellato in modi singolari e diversi, possano ritrovarsi a condividere le politiche verso l’esterno rispettando la libertà dei popoli in quelle interne.
Servirà tuttavia un profondo esame di coscienza politico culturale sugli anni seguiti agli accordi di Maastricht e sull’abbandono delle radici fondative dell’Europa: nel contesto mondiale il nostro è un continente piccolo per territorio e per abitanti (tra l’altro in rapido invecchiamento): non ha sufficienti muscoli da mostrare nella competizione globale ma un patrimonio di civiltà, valori e realizzazioni concrete da mettere in comune per una globalizzazione a misura dell’uomo di oggi.
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